Sostegno e sostenibilità ambientale

L’immagine di copertina dell’«Economist» pubblicata alla vigilia del vertice di Johannesburg ritraeva un uomo disperato, abitante di un’arida regione del Mali, in procinto di bere un po’ d’acqua. Il titolo che accompagnava l’immagine esortava provocatoriamente il mondo ricco a «sostenere lo sviluppo» di quell’uomo assetato, anziché trastullarsi con la lussuosa chimera dello «sviluppo sostenibile» (1).

L’autorevole magazine economico-finanziario ha così deciso di far propria una linea politica piuttosto diffusa tra i delegati del vertice Onu, in base alla quale i vincoli di sostenibilità ambientale non possono costituire un ostacolo alla battaglia prioritaria contro la povertà.

A Johannesburg questa linea è stata portata avanti da più parti, per ragioni molto diverse tra loro. Al fine di giustificare la mancata ratifica del protocollo di Kyoto da parte degli Usa, i delegati americani hanno proposto una versione riveduta della vecchia novella reganiana del trickledown effect, secondo cui è bene eliminare qualsiasi vincolo alla crescita della ricchezza dei paesi avanzati affinché i più poveri possano sfamarsi con le briciole che cadono dal tavolo dei potenti.

Ma anche molti esponenti dei paesi meno sviluppati hanno finito per applaudire alla cover dell’«Economist», affermando che sarebbe alquanto perverso imporre l’obiettivo della crescita sostenibile a popolazioni che, fino ad oggi, hanno visto crescere soltanto le statistiche sulle morti per fame e per malattie. Alcuni delegati si sono poi spinti oltre nella polemica contro i vincoli ambientali, accusando le associazioni ecologiste di pretenderli anche dai paesi poveri, e di mostrare al tempo stesso scarsa sensibilità nei confronti di una battaglia politica ritenuta cruciale per il destino del Terzo mondo, quella a sostegno del libero scambio e dell’abbattimento delle barriere commerciali che proteggono le imprese dei paesi ricchi.

Lavoro e ambiente, risorse non riproducibili

sfruttamento risorse ambientali

Una così accentuata svolta negli orientamenti non poteva non incidere sull’andamento del vertice Onu. È lecito affermare in tal senso che, a parte la ratifica del protocollo di Kyoto da parte di Russia e Cina e poche altre eccezioni, dalla conferenza di Johannesburg è emerso ben poco, se non la sensazione di un netto declassamento della questione ecologica nella griglia delle priorità politiche mondiali.

Le ragioni della sconfitta ambientalista al vertice sudafricano sono numerose, legate non solo alle pessime contingenze politiche ma anche e soprattutto a problemi di prospettiva. Il problema principale verte forse nella diffusa riluttanza a riconoscere come politicamente decisivo il nesso esistente tra la tutela delle risorse ambientali e la tutela delle risorse umane, e nella tendenza a trascurare il fatto che lo sfruttamento di queste risorse si è spesso accentuato in concomitanza con uno spostamento della distribuzione del reddito a favore di rendite e profitti.

Il nesso tra uomo e natura, i cui prodromi risalgono agli scritti di Marx e degli economisti classici, trova peraltro conferme nei recenti sviluppi di teoria economica, che attribuiscono al lavoro e all’ambiente il comune appellativo di risorse non riproducibili o solo parzialmente riproducibili.

Riguardo poi al legame tra fenomeni sperequativi e sfruttamento delle risorse, questo trova un evidente riscontro nell’analisi incrociata dei dati macroeconomici e ambientali di moltissimi paesi meno sviluppati, con particolare riferimento a quelli che nel corso dell’ultimo ventennio hanno subìto gli effetti delle crisi finanziarie e del relativo aumento nei livelli e nell’instabilità dei tassi d’interesse.

Prendiamo ad esempio i dati Fao sulle deforestazioni e i dati Ilo sui salari reali. È sorprendente notare come i paesi che hanno dovuto fronteggiare gli aumenti più significativi della quota di reddito destinata al pagamento degli oneri finanziari siano anche i paesi che registrano i maggiori incrementi nel rapporto tra ore di lavoro settimanale e salario settimanale e nel tasso di sfruttamento delle risorse forestali.
Negli anni ’80 Egitto e India, e più di recente Nigeria, Indonesia, Malesia, Filippine, Tailandia, Corea, Messico, Salvador, Guatemala, Nicaragua, Argentina, Ecuador, Brasile. Tutti questi paesi presentano significative correlazioni tra l’aumento dei tassi d’interesse e l’abbattimento dei vincoli allo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente.
I dati rivelano inoltre che gli shock più significativi nei tassi di crescita delle ore di lavoro in rapporto ai salari e nelle deforestazioni si sono verificati in concomitanza con le prime fasi delle crisi di bilancia dei pagamenti, nelle quali di norma il Pil tende a rallentare se non addirittura a diminuire.

Pil e sfruttamento delle risorse ambientali

deforestazione

Simili evidenze meriterebbero approfondimenti ulteriori. Tuttavia, esse ci consentono di trarre immediatamente alcune indicazioni. Innanzitutto, possiamo notare che il legame tra lo sfruttamento delle risorse umane e ambientali ed il Pil non è così semplice come molti hanno spesso creduto, dal momento che è possibile ad esempio registrare andamenti divergenti nei tassi di deforestazione e nella crescita del prodotto (2).

Ma soprattutto, i dati internazionali ci inducono a soffermare l’attenzione sul fortissimo intreccio esistente tra la dipendenza finanziaria dei paesi meno sviluppati, la distribuzione del reddito e i livelli di utilizzo delle risorse umane e naturali. L’esistenza di un simile intreccio non dovrebbe del resto meravigliare. Esso, infatti, conferma a livello macroeconomico una ben nota conseguenza di tutti i fenomeni di strozzinaggio, che consiste nel fatto che il debitore le proverà tutte, abbandonando qualsiasi remora o disciplina, pur di liberarsi dalla morsa dell’usura.
Il dramma è che la liberazione non avviene quasi mai, dal momento che, anche se venissero eliminate tutte le restrizioni normative, esisterebbero sempre dei limiti fisici ai tassi di sfruttamento dell’uomo e della natura, laddove invece i saggi di variazione degli oneri finanziari non presentano alcun limite oggettivo.

Gli economisti più inclini a difendere le virtù del mercato sarebbero a questo punto indotti a ribattere che i livelli di sfruttamento delle risorse e gli oneri finanziari sono determinati dai prezzi relativi internazionali, i quali a loro volta dipendono da decisioni di compravendita libere e quindi di per sé legittime.
Nel caso poi di un paese che finisse incravattato nella morsa dei tassi alti e che di conseguenza autorizzasse la distruzione delle proprie foreste per ridurre il disavanzo commerciale, i sostenitori più estremi delle soluzioni di mercato tenderanno ad affermare che questi sono semplicemente gli effetti di comportamenti miopi delle autorità politiche, in un contesto di decisioni ‘ottimali’ da parte dei soggetti privati, e che l’unico modo per ottenere risultati efficienti è di privatizzare l’uso di tutte le risorse.

Perdita d’interesse per i tassi d’interesse

Nel corso degli ultimi anni, in seguito al verificarsi di ripetute crisi finanziarie ed economiche, questa concezione panglossiana del funzionamento dei mercati ha fortunatamente perso molto del suo fascino. Visioni teoriche alternative e più aderenti alla realtà sono quindi riaffiorate dal dimenticatoio. Grazie ad esse abbiamo compreso che i tassi d’interesse propri sulle risorse sono sopravvalutati, a causa del fatto che le generazioni future non possono partecipare alle contrattazioni correnti (3).

Inoltre, abbiamo rilevato che un aumento dei tassi d’interesse e di profitto potrebbe condurre a scelte di utilizzo delle risorse non riproducibili sempre più distanti dal loro impiego ottimale in senso fisico (4).

Dai moderni sviluppi di teoria economica dell’ambiente l’istituzione ‘mercato’ esce insomma fortemente ridimensionata, per non dire sconfitta. La politica, tuttavia, non sembra aver fatto finora buon uso delle nuove conoscenze.
I più recenti vertici Onu, ad esempio, hanno affrontato il fondamentale tema della dipendenza finanziaria e dei suoi riflessi sull’ecosistema in modo piuttosto superficiale, limitando le proposte di azione sempre e solo a fantomatici trasferimenti compensativi, come l’aumento degli aiuti o la cancellazione del debito (per non parlare della risibile de-tax) (5), mai a progetti generali di governo della finanza internazionale e dei tassi d’interesse.

uomo e naturaQuest’ultima, tuttavia, è la strada da intraprendere. Come è stato autorevolmente riconosciuto, nei primi anni ’80 la politica monetaria americana diede luogo a un aumento senza precedenti dei tassi d’interesse (6), che a causa della progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari si diffuse rapidamente in tutto il mondo. Quell’aumento, che ha scatenato la crisi del debito e che ha drasticamente compresso i margini di manovra per le politiche di salvaguardia del lavoro, del welfare e dell’ambiente, ha pure determinato uno spostamento verso l’alto dei livelli di lungo periodo delle rendite finanziarie, uno spostamento di cui paghiamo tuttora le conseguenze.

La lotta alla rendita, finalizzata alla riforma generale dei rapporti di debito e credito e al conseguente, sistematico abbattimento dei tassi d’interesse, rappresenta pertanto il passo necessario per liberare energia politica, per investire davvero nelle fonti rinnovabili e per costituire nuove condizioni di salvaguardia per l’ambiente e il genere umano.
Con i tassi reali a zero i vincoli a tutela del lavoro e dell’ecosistema non solo non potrebbero più esser considerati un lusso, ma risulterebbero (con buona pace dell’«Economist») perfettamente complementari con i programmi di riduzione della povertà nel mondo. Un’impresa di tali proporzioni non potrà tuttavia esser perseguita in ordine sparso. Perché sia condotta in modo credibile, occorrerà comprendere che il conflitto tra le generazioni sulla ripartizione delle risorse naturali è intimamente connesso al conflitto tra le classi sociali sulla distribuzione del reddito.
Se si continuerà a negare questa evidenza, il futuro sarà inevitabilmente lastricato di cento, mille, fallimentari vertici Onu.

note:
1 «The Economist», 31 agosto 2002.
2 Cfr. anche R. Bellofiore e E. Brancaccio, L’economia della natura, «Il manifesto», 26 luglio 2000.
3 D.W. Pearce e K. Turner, Economia delle risorse naturali e dell’ambiente, Il Mulino 1991.
4 A. Quadro Curzio e F. Pellizzari, Risorse, tecnologie, rendita, Il Mulino 1996.
5 E. Brancaccio, La favola della de-tax, «Il manifesto», 28 agosto 2002.
6 S. Homer e R. Sylla, Storia dei tassi d’interesse, Cariplo-Laterza 1995.
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