Un’altra modalità per poter andare in pensione 2019 è l’Opzione donna, che quest’anno fa il suo gradito ritorno.

Ricordiamo infatti come l’Opzione Donna è stata reintrodotta nel nostro sistema normativo previdenziale in seguito al decreto legge 4/2019, e che interessa tutte quelle lavoratrici che al 31 dicembre 2018 hanno un’età anagrafica pari o superiore a 58 anni, se dipendenti, o a 59 anni se autonome, a patto che abbiano anche un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni. I requisiti non sono soggetti all’adeguamento collegato alla speranza di vita.

Cos’è l’Opzione donna

Come probabilmente già noto, l’Opzione donna permetteallelavoratrici che ne hanno i requisiti di potersi pensionare con una prestazione che viene interamente calcolata con il metodo contributivo, invece che misto (parte retributivo e parte contributivo) così come normalmente stabilito dalla riforma Dini del 1995.

Come anticipato, l’Opzione donna non è una novità per il nostro sistema pensionistico. Già nel 2004 era stata prevista dal ministro del Lavoro Roberto Maroni, per poi essere confermata dalla riforma varata dal ministro Elsa Fornero del 2011, e successivamente prorogata da alcune ulteriori leggi di bilancio.

Finestre Opzione donna

Tornando alla fruizione dell’Opzione donna, una volta che viene acquisito il diritto alla prestazione pensionistica, la lavoratrice dovrà attendere l’apertura della finestra per poter fruire dell’erogazione effettiva.

Il decreto 4/2019, infatti, ha previsto per la prestazione di cui all’Opzione donna una finestra di 12 mesi nel caso delle lavoratrici dipendenti, e di 18 mesi per quelle autonome.

Importo Pensione Opzione donna

Ma quali sono gli effetti sull’assegno previdenziale? Le persone che vogliono usufruire di questo beneficio dovrebbero fare molta attenzione a questo punto, perché le prestazioni erogate con Opzione donna sono soggette a una serie di penalizzazioni.

La più importante è evidentemente quella dovute al calcolo effettuato (che è interamente contributivo!), oltre al fatto che si finisce con l’andare in pensione in una condizione di minore anzianità contributiva maturata.

Qualche tempo fa il quotidiano Il Sole 24 Ore aveva compiuto un’interessante simulazione in tal senso, immaginando tre lavoratrici, tutte con 58 anni di età al 31 dicembre 2018 e tutte, alla stessa data, con 35 anni di contribuzione.

Ebbene, a seconda della carriera percorsa, infatti, (le simulazioni oscillavano da una retribuzione annua lorda finale di 90mila euro, a una retribuzione annua lorda finale di 30mila euro) la riduzione della prestazione maturata, rispetto a quella che potrebbe essere percepita all’incirca all’età di 65 anni (alla maturazione cioè del diritto alla pensione anticipata), si aggira nell’ordine del 47/57 per cento.

Come anticipato, il risultato di forte penalizzazione è sia da assegnare all’applicazione integrale del metodo contributivo, anziché – magari – quello misto (per un 40% circa) sia al fatto che si va in pensione con una minore anzianità (per un 60% circa).

Gli esempi del quotidiano evidenziavano dunque come, ipotizzando di poter andare in pensione a 58 anni utilizzando il sistema misto, si perderebbe comunque circa il 30% rispetto all’assegno che si otterrebbe sette anni più tardi.

Opzione donna, vantaggi e svantaggi

Di qui, il principale svantaggio: la prestazione ottenibile con l’Opzione donna è notevolmente inferiore rispetto a quella che si potrebbe ottenere con la pensione “ordinaria”. Insomma, è vero che si va in pensione dando all’Inps un importo inferiore di contributi, ma le lavoratrici dovrebbero in ogni caso attentamente valutare l’operazione.

Non è un caso che nel passato recente il numero di adesioni all’Opzione donna è cresciuto al pari dello “sconto” offerto da questa soluzione rispetto alla pensione di vecchiaia o a quella anticipata. Di fatti, affermava lo stesso quotidiano, dalle 1.700 liquidate nel 2011, prima dell’ultima riforma, si è passati alle 11.300 del 2013, fino alle oltre 28mila del 2015.

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