La vicenda Parmalat getta nuove dense ombre sul capitalismo finanziario italiano , ne abbiamo parlato anche sull’articolo della new economy e la crisi del capitalismo,  le audizioni in Commissione parlamentare d’indagine contribuiscono ad aggravare il quadro. I tentativi di autoassoluzione e il rimpallo delle responsabilità (tra qualche scompostezza di troppo per uomini normalmente impeccabili) fanno cadere gli ultimi veli e lasciano intuire i profili di una vasta rete di complicità, resa possibile da quelle che – nella migliore delle ipotesi – devono essere considerate palesi inefficienze dei tanti attori della ‘vigilanza’ e del ‘controllo’: dalla Consob, alla Banca d’Italia, alle società di revisione dei bilanci all’Antitrust.

Sommario sulla crisi economica italiana:

Uno degli aspetti più volte evocati nel dibattito mediatico e nel corso delle audizioni è quello della condotta degli istituti bancari italiani che hanno reso possibile la gigantesca operazione di indebitamento (mediante emissione di obbligazioni) di una società già gravemente ‘malata’ da oltre un decennio. A riguardo – senza entrare nella dibattuta questione delle responsabilità della Banca d’Italia o negli aspetti di rilevanza penale per i quali si attende (e si spera) che la magistratura faccia luce – si impone una riflessione e un giudizio economico e politico.

Puoi approfondire www.anee.it/la-new-economy-e-la-crisi-del-capitalismo/

Banche

Un sistema bancario obsoleto

C’era una volta (il riferimento non è alla preistoria bensì agli anni ottanta del Novecento) un sistema bancario italiano, caratterizzato da una consistente presenza proprietaria dello Stato e da una ridotta dimensione media delle banche. Era un sistema articolato non tanto per filiali di grandi banche nazionali quanto per piccole banche locali, le quali respiravano la stessa aria delle piccole e medie imprese che costituivano sostanzialmente il tessuto produttivo del paese. Quel sistema era l’esito di un lungo processo – cominciato con la legge bancaria del 1936 e successivamente sostenuto, tra gli altri, da Einaudi e Menichella – attraverso il quale si era voluta tutelare la natura pubblicistica dell’attività bancaria per mezzo di un controllo della struttura del settore bancario (il cosiddetto modello struttura-condotta-performance).

Ebbene, quel sistema bancario oggi non c’è più ed è soprattutto dopo le vicende degli ultimi quindici anni che quell’assetto può dirsi quasi interamente superato.
Messa da parte la tesi della natura pubblicistica delle banche, si è assistito in questi anni a un gigantesco processo di privatizzazione, a una vasta operazione di concentrazioni bancarie, alla repentina scomparsa delle piccole banche locali.
Procediamo per gradi dando un’occhiata ai singoli aspetti.

La privatizzazione delle banche

In primo luogo, le privatizzazioni. Il sistema bancario italiano del passato vedeva una robusta presenza proprietaria del settore pubblico. Tuttavia, nel dibattito sviluppatosi soprattutto sul finire degli anni ottanta, fu a tutti spiegato che le tante inefficienze del settore bancario dipendevano essenzialmente dall’assetto del sistema proprietario e, in particolare, dall’eccesso di presenza dello Stato. Fu così che la legge Amato (1990) trasformò le banche in società per azioni innescando il processo di fuoriuscita del settore pubblico dalle banche.

Ci aspetteremmo allora che, come insegnano i buoni manuali di economia monetaria, le banche di oggi finalmente privatizzate (benché rimanga la ‘coda’ delle Fondazioni) siano soggetti altamente efficienti e dunque anche specializzati nell’analizzare il merito di credito. Ma la vicenda Parmalat, al contrario, conferma i dubbi di molti a riguardo.

Le concentrazioni bancarie

In secondo luogo, le concentrazioni. Si sa che in Italia le concentrazioni bancarie (fusioni, incorporazioni, acquisizioni) sono andate avanti negli ultimi quindici anni a un ritmo davvero impetuoso. In questo arco temporale il numero delle banche si è ridotto di circa il 30per cento e i cinque più grandi operatori hanno raggiunto una quota di attività che copre la metà dell’intero mercato.

Non vi è dubbio che il processo di concentrazione sia stato accentuato dalle normative dei primi anni novanta in tema di deregolamentazione e despecializzazione (inseguendo il modello dell’`intermediario finanziario universale’). Le concentrazioni hanno portato alla sostituzione del sistema fondato su piccole banche locali con un sistema di grandi banche nazionali.

Anche in questo caso, ci è stato spiegato che le concentrazioni sono indispensabili per il raggiungimento di una dimensione economica efficiente. Le grandi banche dovrebbero essere in grado di sfruttare le economie di scala nella raccolta e nella gestione delle informazioni, dovrebbero essere operatori sapienti nell’arte di misurare al centesimo il merito di credito. Ancora una volta il caso Parmalat stride palesemente con queste conclusioni.

privatizzazione banca

Il sistema bancario italiano oggi: conseguenze e danni

Ebbene, considerato che di crescita di efficienza non se ne è vista molta, quali sono stati i reali effetti di queste profonde mutazioni del capitalismo bancario del nostro paese?
La verità è che con le privatizzazioni e con le concentrazioni si è assistito a una crescita di potere nelle mani di pochi grandi signori della finanza. Progressivamente estromesso lo Stato e progressivamente liquidato il piccolo capitale locale, i soli grandi banchieri hanno preso le redini del comando.

Le concentrazioni hanno determinato una riduzione del grado di concorrenza, hanno conseguentemente accresciuto il potere di monopolio e hanno infine determinato una crescita dei profitti bancari (e si badi che conferme in questo senso emergono anche da ricerche americane sulle concentrazioni negli Usa). Come si è lasciato scappare Fazio nella sua audizione, le banche italiane non hanno gravi difficoltà ad affrontare la bufera Parmalat grazie ai lauti profitti di cui godono.

E la crescita del potere e dei profitti dei pochi grandi banchieri, perseguita per la via delle privatizzazioni e delle concentrazioni, quali conseguenze ha per l’economia italiana?
La scomparsa delle banche locali sta determinando – come hanno ripetutamente sottolineato anche gli analisti dei distretti industriali – un consistente impoverimento informativo del nostro sistema bancario. A differenza di quanto accadeva nel vecchio sistema strutturato per banche locali, le grandi banche nazionali di oggi generalmente non conoscono il contesto in cui operano le loro filiali ma solo quello delle sedi direttive.

In altre parole, il banchiere non conosce la realtà socio-economica locale, non conosce le imprese che domandano credito e – avendo disattivato quel sistema di rapporti informali sui quali spesso si reggevano le relazioni di debito-credito del passato – non dispone di strumenti adeguati per valutarne il merito di credito. Pertanto, o gli industriali offrono adeguati collaterali (garanzie reali) oppure i banchieri rispondono picche.

Inoltre, se è vero – come l’esperienza storica internazionale insegna – che vi è generalmente una coincidenza dimensionale tra prenditori e datori di fondi (per cui le grandi banche tendono a fare credito alle grandi imprese e le piccole banche tendono a fare credito alle piccole imprese), l’elevata dimensione media delle grandi banche nazionali genera difficoltà nell’accesso al credito alla grande maggioranza delle imprese italiane. Ne sanno qualcosa i piccoli e medi imprenditori che, operando a livello locale e non avendo realmente l’alternativa del mercato finanziario (il collocamento in borsa), si vedono spesso negare le concessioni di credito (tecnicamente si parla di razionamento del credito bancario dovuto al size effect).

L’influenza del monopolio sull’industria

Il rapporto tra capitale industriale e capitale finanziario in Italia sembra oggi volgere a favore di quest’ultimo. Si sottraggono al rischio di razionamento solo quei grandi industriali che, in un poco trasparente ed edificante sistema di intrecci tra banche e imprese, siedono (direttamente o indirettamente) in consigli di amministrazione di banche d’affari (e viceversa). È la questione, pure questa venuta alla luce in questi giorni, dei legami tra le dirigenze e delle interconnessioni delle cariche.

In questa realtà, caratterizzata da un rapporto impari tra i due capitali del paese, si acuisce il rischio di una nuova sottocapitalizzazione della nostra industria. Indipendentemente dalle considerazioni sulla politica delle autorità monetarie, oggi non sono più le emissioni di titoli del debito pubblico a tenere alto il costo del credito bensì il crescente potere di monopolio delle banche. Ciò significa che la crescita dimensionale delle nostre imprese – di cui il nostro apparato produttivo ha assoluto bisogno – è ostacolata dal potere di mercato delle banche; insomma: la concentrazione del capitale finanziario genera difficoltà al capitale industriale e tende a contrarre i livelli di attività dell’economia (e dunque anche i tassi di occupazione).

Quanto appena detto è doppiamente e tragicamente vero per il Mezzogiorno. La rete di banche meridionali è sostanzialmente scomparsa: come ben sanno gli addetti ai lavori, le banche meridionali hanno, infatti, avuto un ruolo sostanzialmente passivo nelle concentrazioni e comunque non hanno in nessun caso operato acquisizioni fuori del Mezzogiorno. Ne segue che il tessuto produttivo meridionale vede oggi nell’accesso al credito la principale strozzatura allo sviluppo e alla crescita dimensionale delle imprese.

ParmalatLa questione Parmalat e le schermaglie tra ministero del Tesoro, Banca d’Italia, Consob, Antitrust e gli altri soggetti coinvolti celano tensioni molto profonde. Il dibattito di questi giorni si è sin qui limitato alla questione banalmente tecnica del modello ibrido di vigilanza funzionale, proposto nel disegno di legge del governo. E invece la questione che sta al fondo concerne nientemeno che la spartizione del plusprodotto: quanto al profitto e quanto alla rendita.

Allo stato attuale dei rapporti di forza, il capitale finanziario ha tratto vantaggio dalla complessa manovra politica di deregolamentazione e despecializzazione. L’interesse della grande maggioranza dei cittadini, che poi altro non è che il mondo del lavoro salariato, è che l’economia non esca strozzata da questo conflitto.

La struttura istituzionale dell’Unione monetaria europea, così come è stata disegnata nel Trattato di Maastricht, assegna alla Banca centrale europea una funzione deflattiva-restrittiva; il che si traduce in una manovra di aumento (o minore riduzione) del tasso di sconto tutte le volte che vi è una tendenza alla ripresa dei salari monetari. Il rischio è che alla politica restrittiva della Bce si aggiungano gli effetti di uno strapotere del capitale finanziario (dunque rendite elevate, razionamento del credito, sottocapitalizzazione).

È necessario un riequilibrio dei poteri. È importante rivedere la funzione delle fondazioni bancarie, recuperando terreno alla proprietà pubblica, e tornare a riflettere sul ruolo dello Stato nella determinazione dell’assetto e del funzionamento del mercato del credito; è altresì importante mettere in campo una seria ed efficace politica di trasparenza dei mercati, di contrasto della pratica di interconnessione delle cariche e di ripristino delle regole ‘elementari’ della concorrenza bancaria.

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